
Dice bene Alexandra Samuel su Harvard Business Review: nonostante Medium e LinkedIn Pulse, esistono almeno quattro buone ragioni per continuare a curare un blog personale.
La prima riguarda i lettori. Anche se sono solo 25, ti sono comunque affezionati: perché regalarli ad altre piattaforme? Tanto più, e questa è la seconda ragione, che il blog è parte di un piccolo ecosistema che è il tuo sito, dove puoi mettere in luce diretta o indiretta competenze, professionalità, curriculum senza le gabbie obbligate di LinkedIn. Perché (buona ragione numero 3) sul tuo sito decidi tu come curare, strutturare e organizzare i tuoi contenuti e scegli tu la forma con la quale presentarli. Un blog indipendente è come una sala di registrazione: sperimenti idee, tieni in allenamento la scrittura, provi pezzi che poi, perché no, rilascerai alle grandi platee di Medium o LinkedIn (questa era la quarta buona ragione).
In realtà, di buone, anzi ottime ragioni ce ne sarebbero anche di più, e investono la scelta del sistema di gestione di contenuti con il quale bloggare, perché l’indipendenza si conquista con la consapevolezza e la consapevolezza non è mai gratuita.
In uno splendido, quanto mai necessario articolo (pubblicato su Medium, già), Hossein Derakhshan racconta di aver trovato il mondo digitale cambiato dopo 6 anni di forzata vita offline. Forzata nel vero senso della parola: Derakhshan è stato arrestato nel 2008 in Iran per reati di opinione, compiuti (se i reati di opinione si possono compiere) sul suo blog. Graziato da una sentenza di condanna a 20 anni e uscito sette mesi fa, Derakhshan non ha scoperto solo una Teheran diversa. Ha visto una Internet che non conosceva.
Come molti, aveva iniziato a bloggare dopo l’11 settembre e come molti intorno al blog aveva costruito una reputazione e una rete di relazioni fondata su idee e pensieri alternativi al mainstream. Il Web di Tim Berners-Lee e dei link ipertestuali. Nel 2015, ha conosciuto la Rete di Zuckerberg e dei like, fondata su un algoritmo che impone la sua programmazione, un palinsesto di contenuti che somiglia tanto, troppo a quello della televisione, dove la diversità e la varietà soccombono in nome dell’omogeneità e dell’uniformità.
Nel suo primo libro dedicato al web design, e quando ancora lo storytelling non era una parola di moda, Jeffrey Zeldman invitava il progettista a narrare una storia, prima ancora che disegnare un sito, perché quella era la grande promessa del Web: nuovi autori per nuovi spazi e nuove forme di contenuti.
E quella era la grande promessa di WordPress: mettere al centro l’autore. Un autore che alla fine degli anni ’90 chiamavamo ‘progettista multimediale’ e che oggi possiamo chiamare ‘scrittore’ solo se accettiamo una nozione allargata di ‘testo’, un testo digitale che comprende scritti, fotografie, video e software. E sta proprio nel software, nella potenza e nella raffinatezza delle social app il dilemma dell’autore che dopo 6 anni si chiede: a che cosa mi serve più un blog se ho tanti, singoli, efficienti tool che mi consentono di pubblicare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, per giunta su network abitati da milioni di individui pronti a regalarmi un plus sign?
Giusto, a che cosa serve un blog nel 2015? A progettare, scrivere e pubblicare la tua storia da autore libero e indipendente, è la mia risposta in Bloggo con WordPress dunque sono.
Paolo Sordi
Bloggo con WordPress dunque sono
Dario Flaccovio Editore
Pagine: 189
Edizione: 2015
ISBN: 978-88-579-0485-6