I doppi profili di John McPhee: Ashe e Graebner, l’erba e il giardiniere di Wimbledon

Dice Matteo Codignola, il curatore dell’edizione Adelphi di Tennis di John McPhee (un curatore benemerito, nonostante un’intromissione nel testo con una lunga digressione non richiesta che dovrebbe fare da trait d’union tra le due parti in cui il libriccino è diviso, se non fosse che, tra le altre cose, dobbiamo venire a conoscenza delle sue difficoltà nel giocare a tennis contro Nanni Moretti, che lo tortura sul piano tecnico e psicologico e gli inibisce, da spietato e sadico qual è, la conquista di un solo game su un totale di dodici. Un errore forzato dall’autocompiacimento che però il nostro riscatta con un approfondimento critico sull’autore e un’aneddotica imperdibile su quel gran buffone, oltre che meraviglioso giocatore, di Ilie Nastase, il quale, lui sì, meriterebbe pagine e pagine, magari di un’altra raccolta), dice insomma Codignola, a proposito dei due racconti di non-fiction di McPhee (un tempo li chiamavamo reportage, oggi li definiremmo longform), che Gianni Clerici considera Livelli di gioco, il titolo del primo e più lungo episodio, il testo più bello mai scritto sul tennis. E come dare torto al vecchio scriba?

Arthur Ashe
Arthur Ashe in campo a Rotterdam nel 1975.
Rob Bogaerts / Anefo, CC0, via Wikimedia Commons

Agli inizi del mese di settembre del 1968, John McPhee ci fa accomodare su un divano, sintonizza la televisione sulla semifinale dei primi US Open della storia, che a quel tempo si tenevano sull’erba di Forest Hills e non sul cemento di Flushing Meadows, e commenta per noi l’incontro tra gli statunitensi Arthur Ashe e Clark Graebner con la precisione tecnica di Rino Tommasi e l’eleganza espositiva del Clerici citato sopra. Il riferimento ai due giornalisti che in coppia hanno trasformato la telecronaca di uno sport in un genere televisivo letterario non è preterintenzionale, perché McPhee lavora sulla composizione della pagina scritta come se lavorasse al montaggio video di una serie di fotogrammi: una tecnica di scrittura che cinquanta anni dopo i documentari biografici di Netflix hanno messo a punto come prodotto mainstream di una narrazione video che ibrida cinema, televisione e letteratura. A ogni cambio di campo – quella pausa che interrompe il gioco lasciando per novanta secondi i giocatori con i propri pensieri – oppure al termine di uno scambio importante, e sapendo che nel tennis «i meccanismi motori traducono la storia personale e il carattere in colpi e caratteristiche di gioco», lo scrittore abbandona il rigore giornalistico del commento, stacca l’inquadratura dal campo di New York, torna indietro nel tempo con una dissolvenza impercettibile e si concentra sul racconto delle storie dei connazionali e coetanei Arthur e Clark, delle due famiglie, dell’ambiente, delle città e dei luoghi dai quali provengono. Ashe, il primo tennista afroamericano ad affermarsi in uno sport di bianchi. Graebner, il tipico rampollo di una famiglia borghese di origini tedesche.

Un maestro del giornalismo letterario, McPhee aveva messo a punto la tecnica compositiva del “doppio profilo”, inaugurata con Livelli di gioco, dopo anni di articoli per la rivista The New Yorker in cui aveva ritratto singoli personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport, dell’arte e dell’intrattenimento. Di regola, come spiega bene Codignola e illustra lo stesso McPhee in Draft No. 4: On the Writing Process (2017), l’autore seguiva uno schema che prevedeva la collocazione del protagonista, intervistato, al centro di un ideale cerchio lungo la cui circonferenza si collocavano invece le interviste ai personaggi secondari (amici, parenti, colleghi, antagonisti), così da fornire la ricostruzione della vita del soggetto ritratto la più vicina possibile a un’idea circolare e completa di verità (o verosimiglianza). Nel momento in cui, come nel caso di Ashe e Graebner, i protagonisti del racconto diventano due, McPhee aggiorna lo schema, ma non agisce nella direzione di un raddoppiamento meccanico del cerchio, piuttosto cerca di tessere legami tra i due mondi, tracciare collegamenti tra le vicende passate che si sovrappongono a quelle presenti in modo da stringere in un solo, unico intreccio le vicende di padri, madri, fratelli, mogli, fidanzate, allenatori, mentori, avversari con quelle dei due tennisti al centro della doppia narrazione.

Schema del doppio profilo - 1
Schema del profilo: un protagonista
Schema del doppio profilo - 2
Schema del profilo: due protagonisti

Il risultato è che più informazioni il lettore raccoglie su Clark e meglio conosce Arthur, e più informazioni raccoglie su Arthur e meglio conosce Clark, tanto più che da vero e proprio narratore onnisciente McPhee lo fa entrare nella testa dei due contendenti addirittura mentre giocano i punti senza esclusione letterale di colpi. Nel pieno della denotazione giornalistica («Un rovescio di Ashe rimbalza due metri al di qua della linea»; «Set Graebner, sei a quattro»), McPhee connota gli scambi riportando i dialoghi tra sé e sé che i giocatori qualche volta esprimono ad alta voce nelle pause, ma perlopiù comprimono nel silenzio di pensieri muti, obbligati dall’agonismo e dall’azione a lasciare spazio solo a un’istintività certo allenata, certo addomesticata, ma mai davvero cosciente di sé fino in fondo, e soprattutto mai verbalizzata, se non a posteriori. In Livelli di gioco invece sentiamo Arthur esclamare mentre Clark si difende a rete: «Accidenti che volée. Ma come diavolo ci è arrivato?»; oppure Clark lamentarsi stizzito dopo una sua botta di servizio: «Ma come, gli sto servendo sul dritto, il suo colpo più debole, e mi risponde così?».
Quando si avvicina alla fine della partita, al cui esito è accompagnato da una fulminante prolessi della finale che Ashe vincerà il giorno dopo contro l’olandese Tom Okker – un altro colpo da maestro di McPhee –, il lettore sa tutto quanto è successo sul campo di New York in quel pomeriggio tra i due giocatori, ma, quello che più conta, ha alzato il suo livello di (comprensione del) gioco del tennis, della vita di due ragazzi e degli Stati Uniti degli anni Sessanta, ritratti in un rettangolo d’erba diviso da una rete e segnato da righe di gesso.

E al rettangolo verde più famoso del mondo tennistico e non, Wimbledon, McPhee dedica il secondo racconto di Tennis, un altro piccolo, delizioso capolavoro dove la vera azione si svolge, in modo ancora più evidente che in Livelli di gioco, al di fuori del torneo e delle partite, vissuta com’è nel ritratto del giardiniere capo del club londinese negli anni Sessanta, Twynam. Il quale Twynam, quando segue un match dalla sua solita posizione defilata ai bordi del Centrale, è indifferente allo svolgimento del gioco, lui ha occhi e attenzioni solo per i piedi dei giocatori: gli rovinassero i suoi prediletti e curatissimi ciuffi d’erba, quei maledetti «struscioni».