Lombroso aveva visto giusto. L’ambiente, l’adattamento, la selezione, l’evoluzione: Darwin, d’accordo. Ma Lombroso, lui aveva visto giusto: esiste, anzi è sempre esistito un pendolare per nascita. Quando alla fine dell’estate saranno recuperati i corpi dei viaggiatori asfissiati dall’assenza di aria condizionata sui vagoni, gli esami autoptici potranno confermare le intuizioni del criminologo. Ora, non deve certo sorprendere che sia la criminologia a portare i contributi teorici più pregnanti a una materia come quella del pendolarismo, apparentemente innocua per la convivenza sociale: cosa altro è infatti, se non un crimine, far viaggiare degli esseri umani su sedili surriscaldati, composti da un binomio letale di pelle plastificata e plastica simil-pelle?
Le scoperte rivoluzionarie di Lombroso hanno ribaltato non soltanto le teorie darwiniane, ma tutti i tradizionali approcci al problema. Le origini della sofferenza provocata dal treno regionale non stanno nel treno o in chi il treno lo gestisce: i grandi manager fanno il loro lavoro, e non è possibile attribuire a degli onesti tagliatori di teste e di costi (che poi, diciamocelo, sono la stessa fastidiosa cosa, le teste e i costi) responsabilità che il mercato impone loro di assumere per la sopravvivenza del Carpené Malvolti sull’alta velocità.
Se il mercato è un dato ambientale, Darwin vorrebbe allora che la specie umana abbonata al sette zone presentasse prima o poi un mutamento genetico, un carattere nuovo che si manifestasse in un sorriso inebetito di contentezza e riconoscenza per l’esistenza del Vivalto e del servizio pubblico. Il pendolare, al contrario, è sempre immutabilmente depresso, depresso e triste, e quindi socialmente pericoloso. Le persone tristi, lo sanno tutti, mettono tristezza, quando il poeta stesso suggerisce che sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, e se il re piange, l’economia va giù anche lei e poi più nessuno potrà accarezzare il brivido lussuoso di stuzzicare un salatino lanciato a trecento chilometri l’ora tra Orte e Firenze.
Partendo da questa osservazione quotidiana (per un breve periodo della sua vita fu un abbonato a Trenitalia anche lui, facendo la spola tra il manicomio di Ceccano e l’ippodromo delle Capannelle, la cui frequentazione gli valse la fama di essere matto come un cavallo) e dalla autopsia di Onorato Viaggiatore, colpito da un infarto mentre litigava per un sedile occupato il venerdì sera, Lombroso concluse che il pendolare è un tipo antropologico predeterminato. In particolare, l’analisi del cranio del Viaggiatore rivelò una fossetta occipitale mediana che con la dovuta attenzione è possibile vedere anche a occhio nudo su tutti i pendolari viventi delle sei e quarantatré. La deformazione, non rinvenibile nei crani degli altri essere umani, serviva secondo lo studioso a canalizzare il sudore nei mesi estivi e non si spiegava con l’assenza del latte materno, né con una testata contro la cappelliera del vagone, né tantomeno con la visione giornaliera, sin dalla prima infanzia, di Canale 5. Piuttosto, uno sviluppo embriogenetico interrotto che avrebbe condannato l’esistenza di Viaggiatore, come quelle di tutti gli altri suoi compagni deterministicamente sfortunati, a una serie di atti meccanici, privi di un vero libero arbitrio: la sveglia, la minzione, il lavaggio rapido, la vestizione, la colazione, la macchina, il parcheggio, il binario, l’assalto feroce al treno, la lotta sanguinosa per il posto, il sonno di ritorno, la depressione in vista delle stazioni.
Per il bene della collettività, Lomborso riteneva opportuno che i pendolari continuassero a essere reclusi sui treni a breve percorrenza (che gli apparivano come futuribili prigioni mobili), magari allungando i tempi della detenzione con ritardi strategici: più tardi l’individuo sarebbe stato riconsegnato alla vita civile, maggiore sarebbe stato nella sua visione il beneficio per la sicurezza della società e della famiglia.
Volendo scendere nel dettaglio della predeterminazione, sono due i caratteri dominanti che lo studioso ha delineato e lasciato in eredità alla crimonologia moderna:
- Il pendolare atavico. È la figura eponima, il terrore dei compagni di cella, cioè: di vagone. Distinguibile per la sua massa corporea primatesca e gli arti superiori rasoterra, ingombrante due sedili come minimo, la pancia strabordante la cintura lassa, il pendolare atavico sprigiona nicotina anche a sigarette spente e mostra, oltre a un fiuto animale per la previsione dei ritardi, un’insensibilità subnaturale al dolore quotidiano: l’atavico non manifesta alcuna sofferenza a bordo del treno, forse perché nessun altro ambiente gli permetterebbe di giocare a carte prima delle sette di mattina. Come un Achab ferrato e molto poco letterario, il pendolare atavico, una copia di Libero nella mano come un arpione, non aspetta altro che finire nel ventre della Stazione Termini, la Balena Bianca che divora i viaggiatori dividendoli tra viscere A e viscere B, entrambe a lavori in corso.
- Il pendolare mattoide. Educato, cortese, riservato: il pendolare mattoide apparirebbe come una persona normale, se non fosse l’ossessione parossistica per la pulizia a tradirne il tratto deviato e irrecuperabile. Seduto su un sedile che anche il nucleo più coraggioso dei Nas rifiuterebbe di toccare, il pendolare mattoide si illude di restare incontaminato stendendo un lenzuolino a diaframmare la sua esistenza da quella delle zecche. Riconoscibile per i muscoli ipertrofici del collo, sviluppati per tenere il capo lontano dal poggiatesta durante i momenti di dormiveglia, il mattoide è caratterizzato anche da accessi di paranoia che lo spingono a imputare a un complotto della CIA la soppressione del locale delle sei e quarantasei. Tornato a casa, continua a recludersi, ma nella doccia, dalla quale esce soltanto per risalire sul treno del giorno dopo.