La classe pendolare va in paradiso

Per una serie di circostanze superflue, e anche romanzesche visto che il minimalismo quotidiano ha da tempo guadagnato dignità narrativa, ti ritrovi a viaggiare sul Frecciarossa. In prima classe, addirittura.

Il mondo della Freccia ti accoglie su un binario che tiene testa alla omologa parola inglese: è una piattaforma, in realtà, ampia e pulita, surrealmente pulita, se pensi al monolocale della Regina del Binario Ventidue solo qualche metro più in là in linea d’aria. Nessuna traccia di carrelli adibiti ad armadi ambulanti, né tantomeno di rifiuti biologici. Niente: soltanto una spianata illuminata da monitor che numerano ogni singolo vagone. E sulle rotaie, la Frecciarossa con il tuo posto numerato, sì, il tuo posto numerato: niente fight club, una poltrona è riservata per te e nessun controllore comunista te la può sottrarre.

Ti siedi, dopo aver lasciato sulla cappelliera da aeroplano il giaccone e la ventiquattro ore, e sprofondi in un comfort corruttore nei confronti del quale ti senti imbarazzato. Il senso di inadeguatezza ti assale con più forza quando dall’altoparlante una voce annuncia la merenda, che si ripeterà a ogni fermata: uno snack dolce o salato, che dice essere “di prestigiosa marca italiana o a garanzia bio/solidale“ e una bevanda a scelta tra acqua, tè, Oransoda, Coca-Cola e succo di frutta, oltre al Carpenè-Malvolti, che non sentivi nominare dagli anni Novanta e che il sito di Trenitalia, nel presentare il welcome drink, dimentica di menzionare forse nello sforzo di mantenersi etilicamente corretto. E non crederesti alle tue orecchie, ma qualcuno il Carpenè-Malvolti lo prende davvero – alle sei.

Dopo aver tolto le briciole dello snack, pensi di utilizzare il tavolino per il portatile, un miraggio di appoggio che permetterebbe di salvare le tue cosce dalle ustioni provocate dal surriscaldamento del disco del MacBook Pro. Se solo avessi le braccia di Julius Erving. L’utilizzo compulsivo dei pulsanti sotto il bracciolo non produce nessun risultato utile di avvicinamento e allora posizioni il pc come se stessi su un qualunque Vivalto (che, detto tra parentesi, la presa di corrente disponibile sul posto ce l’ha anche lui. E pure i bagni fuori servizio, per dire).

Con una certa costanza e imperizia, un uomo chiamato “pulitore viaggiante“ spazza via i resti dell’abbondanza capitalistica, mentre i passeggeri più estroversi e insicuri cercano di socializzare tra loro, anche per esorcizzare la paura di essere seduti su un missile lanciato a trecento chilometri l’ora. I nomi che si scambiano nelle presentazioni (Diletta, Zaccaria, Elettra, Jacopo, Clementina) si inseriscono nel contesto come una decorazione e sono un’imperdibile base di partenza per conversazioni che, se paragonate a quelle massimaliste del pendolare medio, che se non dorme è capace di spaziare con lo stesso acume dalla crisi della Juventus a quella del centro-sinistra senza dimenticare una soluzione per la crisi nucleare iraniana, sfiorano argomenti intimi e dimenticabili.

Una seconda voce dall’altoparlante, questa volta più sexy, comunica l’imminente fine del viaggio e ti inietta da subito una buona dose di nostalgia preventiva dell’alta velocità. Il ritorno sui binari della quotidianità somiglia al risveglio dall’Hotel California, o da una piscina della Salaria, e non capisci se sei appena sceso dal paradiso o dall’inferno. Poi realizzi che, per essere l’inferno, non è che facesse così caldo, nel vagone del Frecciarossa.