La cognizione del sudore

Per chi prende i mezzi pubblici, sudare sette camicie non è un modo di dire, è un’umida realtà quotidiana.

Treno di andata, ore 6.43: prima camicia

Lo chiamano Vivalto perché è a due piani. E avrebbe anche l’aria condizionata di serie. Anzi, avrebbe per ogni quaterna di sedili una presa elettrica attraverso la quale ricaricare il cellulare o il portatile. Anzi, avrebbe per ogni vagone un display che ti informa in tempo quasi reale dell’ora di arrivo prevista presso la prossima stazione, del ritardo accumulato e della disponibilità della toilette (che spesso non perviene, peraltro, la disponibilità della toilette). Addirittura, avrebbe un sistema di messaggistica vocale che ti comunica la prossima stazione, il ritardo accumulato e le scuse per il ritardo accumulato: la voce in realtà dice ritardo maturato in un capolavoro burocratico-linguistico di contropiede semantico. Avrebbe tutto queste cose. E sarebbe anche bello. Ma. Ma non è a due piani: è un monolocale soppalcato, per cui subito prima di infilarti compresso come un file ZIP nello spazio ristretto, ristrettissimo del tuo sedile, gomito a gomito con chi la sua unica camicia la suda per sette-giorni-sette-lavorativi-e-non, sbatti la tua testa assonnata sulla dannata cappelliera, posta ad altezza Brunetta, se si passa l’ossimoro, e incapace di accogliere volontariamente il tuo zaino con un portatile diverso dall’Air. Dopo aver letto o meglio: scorto il quotidiano formato tabloid, a un’apertura mai superiore ai quindici gradi, dato che sei una persona possessiva ed educata e non intendi condividere la lettura con il tuo vicino né sbattergli il rovescio della mano sul naso, arrivi all’ultima prova, se in partenza hai avuto l’inaccortezza di salire sul soppalco: nove fatidici gradini, per piede misura ventotto, in discesa, alle sette e cinquantacinque. Sarà freddo e condizionato, ma sempre sudore è.

Trambus, ore 8.01: seconda camicia

Il pieno di benzina ti segnala che il mondo attraversa una drammatica crisi energetica. Il 90 Express ti ricorda che la faticosa strada verso le fonti alternative di energia va da Piazza dei Cinquecento a Via Nomentana, quando il trambus può attaccarsi ai fili della linea elettrica: prima, puoi già considerarti fortunato se le batterie ti hanno consentito di superare, al contrario, la breccia di Porta Pia, figurati pretendere che accendano l’aria condizionata. Forse la sera prima quelli dell’Atac dimenticano di attaccarlo al caricatore, come fa tua moglie con il telefonino.

A piedi, ore 17.40: terza camicia

Un vero pendolare seriale non si limita a macchina, treno e bus. Un vero pendolare seriale vuole anche la metropolitana, nelle dodici ore lontano dalla sua altra parallela realtà. Ed è disposto a camminare tra gli orridi scavi della linea C per scendere nella B. Ad attraversare, con lo zaino nero sulla schiena, un boulevard senza alberi, probabilmente sequestrati dalla finanza. A ignorare tutte le gelaterie che offrono una pausa refrigerante al suo passo affrettato e claudicante. A fondersi con il cemento romano, greve e appiccicoso.

Metropolitana, ore 17.50: quarta camicia

Per la discesa negli inferi devi attraversare un tornello che mette a rischio le tue potenzialità riproduttive. Poi una scala mobile. Sulla banchina, una folata di aria usata, gommosa e tiepida, ti annuncia l’arrivo del treno. Quando entri, l’umanità che ti accoglie è ridotta a risorsa umana da trasporto: la maggior parte non gode neanche dell’adrenalina insensata ma in fondo consolante di un altro viaggio, un altro allungo che ti conduca distante, sempre più distante, dal luogo di lavoro: vuole solo arrivare al capolinea della giornata. Le fessure dei finestrini sono aperte e l’unico condizionamento che senti è quello del tuo sudore, che si fa olfattivamente imbarazzante. Per la risalita dagli inferi, devi attraversare un tornello che mette a rischio le tue potenzialità riproduttive residue.

Treno di ritorno, ore 18.15: quinta, sesta e settima camicia

Quando le perle di sudore sulla tua fronte ti stanno già rendendo ricco, ecco la tombola di un bel carrozzone vagonato che arriva dagli indimenticabili anni ottanta e da un deposito in pieno sole. Dopo venti anni trascorsi in gloria ad accumulare ritardi, te lo hanno ammodernato e riproposto nel ventunesimo secolo, come se fosse una di quelle operazioni vintage con cui il marketing affettivo ti frega ricattandoti con la nostalgia passata di un futuro migliore. Solo che il glamour e il pendolarismo appartengono a due categorie di pensiero incomunicabili tra loro. Basta scrutare i segni visibili dell’ammodernamento interno della vettura: linoleum cerato ovunque e stoffe dei sedili colorate con l’improbabile accoppiamento cromatico della corporate identity: un azzurrino triste, rinunciatario e finale e un verdino pisello impotente e appassito. Segni visibili dell’ammodernamento esterno, invece: nessuno, a parte dei giganteschi e ottimistici, anche se inquietantemente simili a bare, condizionatori sul tetto di ogni vagone. Ma come tutti gli innesti contro natura e fuori tempo massimo (immagina Bossi: ministro delle riforme costituzionali, nel 2008: assurdo, no?), il condizionatore non funziona. Nove volte su dieci. E tu sudi, sudi, sudi, sudi, sudi, sudi, sudi, sudi, sudi. Come James Brown, all’Apollo. La decima volta, hai preso la macchina o cambiato Paese.