L’iPod, alla fine

Nonostante tu sia un fedele e invasato appartenente alla setta della Mela Morsicata da quando, tredici anni fa, decidesti di avere un computer, non hai mai comprato un iPod. E questo nonostante tu possa essere tentato di acquistare da Steve Jobs anche un corso di mimo radiofonico.
L’immagine di te stesso a spasso con un paio di cuffiette nelle orecchie e fili penzolanti davanti al petto ti dà in realtà la lontana idea di un deficiente.

E un puntuale deficiente ti senti quando esci dall’ufficio, con l’iPod per la prima volta in tasca e le tue bianche cuffiette nelle orecchie di cui sopra. L’iPod, regalo di un’insospettabile, è il Nano di ultima generazione, un bianco e argentato capolavoro di interfaccia ed eleganza minimalista, sebbene il modello Touch lo faccia già apparire come un oggetto destinato a rientrare nel giro di un anno nella nostalgica categoria del modernariato.
Ma tu non ti vedi né di ultima generazione né elegante: imbranato, piuttosto, con quei cavi che ti ballano sulla giacca, si incastrano nella sciarpa e tutti che ti osservano mentre, rigido, molto rigido, cerchi di provare l’angolazione raggiungibile dai movimenti del collo senza provocare il penoso distacco di uno dei due auricolari (nessuno ti caga, ma in quel momento, provando tu tangibili sensazioni di autodeficienza, sei paranoicamente convinto che lo facciano, anche con molta più attenzione del solito).

Eppure, mentre continui a camminare con quella imbarazzante protesi acustica, nel momento in cui cominci a prestare il tuo ascolto alla musica, canzoni senza titolo dall’Islanda, tutti scompaiono. Anzi: qualcuno che somiglia a te esce dal tuo corpo e tu ti trasformi nello spettatore del film di te stesso. Venerdì sera, novembre, Roma, foglie, pioggia, Via Ravenna, la metropolitana, il ritorno a casa, Termini, tu con l’iPod: quelle immagini e quei luoghi hanno senso solo per comporre la colonna sonora di quei venti minuti della tua vita.