Verso l’iceberg

Il lunedì mattina, di solito, ti dividi tra due stati d’animo alternativi come lo sconforto e la rassegnazione. Quando scendi dall’interregionale ventiquattronovantasei, in ritardo di quei quaranta minuti, e ti avvii, zaino sulle spalle, verso Piazza dei Cinquecento, un po’ di sana e argomentata sfiducia nella civiltà occidentale inizia a farsi largo dentro di te. Ma non sei ancora salito sul novanta. Soprattutto, il musicista di strada non è ancora salito sul novanta. Nel momento in cui le porte si chiudono e dal carrellino della spesa riciclato in stereo ambulante parte la base preregistrata e poi live la chitarra, capisci perché dovresti possedere un iPod e magari una coppia di quelle meravigliose cuffiette isolanti da centocinquanta euro che vendono sul sito della Apple. My Way, perché è My Way che l’uomo con la chitarra suona, ti apre un baratro di malinconia incolmabile, puoi vedere le tracce delle lacrime sulle guance di tutti i passeggeri, sopraffatti da un senso di alienazione metropolitana sintetizzabile nelle due domande: cosa cazzo ci faccio io, qui, e qual è il senso? Ma non è tanto questa o quella canzone (anche se My Way, di per sé, stenderebbe anche il Giorgio Rocca di questi tempi), o il lunedì, o il Truman Show quotidiano, è che nelle corde di quello strumento anche I Got The Feelin’ si trasformerebbe in un inno alla depressione. Se avete mai ascoltato, in qualche fiera di paese, una versione di Imagine al flauto andino, capirete quello di cui sto parlando. Essendo un uomo fortunato, il tuo viaggio ai confini del dolore del mondo finisce prima dell’interpretazione della colonna sonora di Titanic. L’iceberg, almeno quello, può aspettare.