Grande Stazione Termini

Quando arrivi a Termini la mattina, gli occhi che ancora portano i segni della fase REM, ti accolgono due mostruose pupille dilatate. Cose mai viste, ti dicono. Non si riferiscono ai ritardi dei treni. Fanno pubblicità alla Stazione Termini, trasformata in centro commerciale da Grandi Stazioni. Non vorresti partire mai, ti dicono ancora le pupille, in overdose da scansione di prodotti sapientemente illuminati. Non vorresti partire mai. Ora, la stazione, nonostante il suo nome, appunto, stazionario, è uno di quei luoghi dove la vita è massimamente dinamica, ontologicamente passeggera, dove l’arrivo non è altro che una ri-partenza, come amerebbe dire Arrigo Sacchi. E dove il tempo a tua disposizione, se ce l’hai, lo conti in negativo: meno dieci, meno nove, meno otto… e via di nuovo, su un altro treno, su un autobus, al lavoro, a casa. Perché tu sei in quella dannata stazione solo per quello: tu devi partire. Dice: ma non è un centro commerciale, è la riqualificazione di uno spazio. D’accordo. Un’integrazione nel tessuto urbano vivo della città. Va bene, benissimo. Eppure, quell’intenzione di bloccare la tua partenza, di trattenerti offrendoti libri dischi pizza panini jeans mutande calzini acque medicine cravatte profumi telefonini orologi scarpe maglioni, non è soltanto un’ironica trovata di marketing, nasconde il tentativo riuscito di profittare, letteralmente, di tutti i vuoti possibili della tua vita di viaggiatore. Dieci minuti di ritardo? Compra un cd. Mezz’ora? Prova un paio di pantaloni. Più di un’ora? Passa in farmacia e fai scorta di antidepressivi. Hai fame? Fermati all’Autogrill. Aspetta un attimo, cosa: Autogrill? Sì: Autogrill. Ma non sei alla stazione, quella con i treni, i binari, i fischietti e tutto quanto? E allora? Forse Autostrade ha una quota di partecipazione in Grandi Stazioni, chissà.