Arrivano a bordo di quelle macchinine elettriche che farebbero la loro figura su un campo da golf, quelle macchinine, per intenderci, che retrocedono il pilota al tempo felice e irresponsabile della giostra e dell’autoscontro. Si avvicinano silenziosamente alle tue spalle e, un attimo prima di investirti, ti suonano dietro la nuca e ti scartano scodinzolando tutti i rimorchi. Poi si fermano lungo la linea gialla del binario e in attesa del treno mettono in bella vista un cartello dotato di trespolo. Sopra il cartello c’è scritto: Pit stop pulizia. Tu credi di aver sbagliato canale. Già la parola pulizia collegata a una qualsiasi forma di materiale su rotaia ti spiazza in sé. Passi, sei disponibilissimo a cedere a un’illusione di sedili profumati e lucidi. Ma Pit stop. Il cambio gomme, il rifornimento di benzina, i moscerini via dalla visiera del casco, tutta quella palla che rende sempre più inguardabili i gran premi, che non capisci mai che quello che è primo adesso diventerà quarto dopo perché deve ancora fare la sua cazzo di sosta, e anzi rischia di diventare sesto perché chi lo segue di soste ne ha programmate una in meno e allora, pensi, tu fai bene a non fermarti mai agli autogrill. Pit stop. Cosa c’entra con il tuo schifosissimo treno. Chiaramente, ti stanno prendendo in giro. Non solo non ti parlano in italiano, che sarebbe ancora la tua lingua, ma ti evocano anche l’automobilismo da trecento chilometri l’ora, quando tu lavori da anni sulla tua psiche per interiorizzare i vantaggi kunderiani della lentezza e del ritardo cronico. Come se non bastasse, loro, quelli del Pit stop pulizia, sono vestiti con una tuta rossa, sì, come se fossero i meccanici Ferrari, ma in questo caso, visti all’opera e cronometrati i loro tempi record, devi ammettere che l’analogia cromatica calza incredibilmente bene. Deve esserci Mario Poltronieri alla direzione dei servizi di manutenzione di Trenitalia.