Quando è lunedì, sette e quaranta di mattina, e ovunque vorresti essere tranne che sulla banchina del binario due, quando hai fatto le due di notte per vederti gratis qualche gol dai resti di una trasmissione che chiamano ancora “Domenica sportiva”, quando la tua pasticceria preferita si gode il giorno di riposo, quando non hai voglia di sgomitare contro vecchi donne e bambini per assicurarti un posto a sedere, e il tuo posto a sedere se lo prende uno studente di giurisprudenza che segue le lezioni di diritto ecclesiastico, allora sono tre imprecazioni.
Quando esci dal lavoro mezz’ora prima, perché oggi il tuo posto a sedere lo vuoi, sicuro, e comunque di lavoro ne hai avuto abbastanza, quando cerchi di decidere se ti conviene aspettare il filobus con le aste oppure arrivare a piedi alla metropolitana, ma no, la metropolitana meglio di no, diciamo che di questi tempi soffri di claustrofobia, quando riesci ad arrivare a Termini con quel margine che il posto a sedere è tuo, non ci piove, e il treno corrispondente porta tre quarti d’ora di ritardo, per cui potevi uscire dal lavoro quindici minuti dopo e farti pagare lo straordinario: due imprecazioni.
Quando il viaggio sembra davvero iniziare bene, quando il posto a sedere quasi viene da te ad accoglierti, a dirti accomodati pure, e tu sistemi rilassato le tue cose, il tuo zaino, la tua giacca, i tuoi occhiali da sole, tiri giù il bracciolo centrale del sedile, apri “Diary” e cominci a leggere, sette sedili splendidamente vuoti intorno a te, quando in quel preciso momento ti si siede accanto il pendolare che hai già visto ieri, con indosso la stessa maglietta di cotone misto acrilico, e adesso che ci pensi bene quella maglietta ce l’aveva anche l’altro ieri, e fuori ci sono trentacinque gradi da tre giorni, beh, là sono cinque imprecazioni (di cui due profilate appositamente per il pendolare con la maglietta di cotone misto acrilico).
Quando il treno ti fischia dentro le orecchie, sì, sì, mi sposto dalla linea gialla mica mi voglio suicidare, e ti frena duecento metri dopo il punto che avevi accuratamente calcolato essere quello di frenata dell’ultima carrozza disponibile, quando le carrozze disponibili sono cinque, quando da un secondo rapido calcolo che conta le persone che ti stanno davanti a duecento metri di distanza il tuo fottuto posto a sedere lo puoi considerare, appunto, fottuto, quando quella ultimissima speranza che ti eri lasciato, perché in fondo sei un ottimista, muore dietro la moltitudine davanti alla porta che non si apre (parentesi: perché il proverbio la speranza è l’ultima a morire dovrebbe essere confortante? Per la cronaca, la speranza alla fine muore, alla fine, ma muore), quando sei costretto a leggere il giornale in opinabile equilibrio sul tuo ginocchio basculante a prescindere dallo scarrozzamento del vagone, tutto questo fa quattro imprecazioni.
Quando consideri che perdi quattro ore della tua giornata tra aspettare un treno o un autobus o una metropolitana e viaggiare su un treno o un autobus o una metropolitana, quando ti manca l’aria (condizionata), quando ti tornano alla mente tutti gli articoli che negli ultimi cinque anni ti raccontavano le meraviglie del telelavoro, e ne conoscessi uno che telelavora, quando il tuo posto a sedere lo vuoi a casa tua, biglietto numerato, puoi arrivare anche un solo secondo prima, grazie, quando, niente di personale, ma di Valmontone Zagarolo Labico non ne vuoi proprio più sapere, quando, per una di quelle libere associazioni che renderebbero felice qualunque psicoanalista, ti ricordi che Mac nell’ottantaquattro ha perso solo tre partite su ottantacinque e una di queste era la finale del Roland Garros, in vantaggio di due set a zero e un break contro quel roditore di Lendl: altre, definitive dieci imprecazioni.